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    Silvio Pellico

    L'Uomo

    Omnia possum in eo qui me confortat.
    (Philipp. 4, 13)


    Capir non può l’umano spirto quale
    Fosse dell’uom la prima, alta natura,
    Pria che i suoi giorni avvelenasse il male.

    Ma di natia grandezza un resto dura
    Pur d’Adam nel nipote sventurato,
    Che un Dio, piucchè una belva, in sè affigura.

    Quel corrucciarsi del suo abbietto stato
    È ad un tempo alterigia e sentimento
    Ch’ei pel fango terren non fu creato.

    Giocondo del suo pascolo è l’armento,
    E se rugge il leon, rugge per fame,
    E quand’è sazio, anch’ei posa contento.

    Solo il mortal, benchè ogni senso sbrame,
    E si sforzi a letizia, ode una voce
    Che in cor gli grida: — L’ore tue son grame!

    Sempre muta pensier, sempre lo cuoce
    Uopo sfrenato di scïenza o possa,
    Sempre una spina a sue calcagna nuoce.

    Solo fra gli animali ei pur dall’ossa
    De’ cari estinti aspetta vita, e crede
    Sovrastar gioie e danni oltre alla fossa.

    In ogni secol l’uom si vanta erede
    D’avito senno e cresciutissime arti,
    Ed egualmente sitibondo incede.

    Ambisce ragunar tutti i cosparti
    Lumi dell’universo, e farsi Iddio,
    E rifuggongli quei da cento parti.

    Agogna fama, e lo ravvolge obblio,
    Sanità cerca, e infermità l’abbatte,
    Sa di peccare, e vorrebb’esser pio.

    Contr’altri, contra sè freme e combatte,
    Vuol parer dignitoso ed assennato,
    E il premon fantasie luride e matte.

    Egli è un astro smarrito ed oscurato
    Che di sua prisca gloria un raggio serba,
    E volge a rallumarsi ogni conato.

    Egli è una cosa angelica e superba,
    Egli è un Nabucodonosor del cielo,
    Dannato co’ giumenti a pascer l’erba.

    Sull’intelletto suo s’è steso un velo,
    Ch’ei maledice ed agita, e attraverso
    Scorge il tesor perduto ond’è sì anelo.

    Come offes’egli il Re dell’universo?
    Qual fu l’arbor vietata ch’egli ha tocca?
    Sin quando in mezzo a’ vermi andrà disperso?

    Basti che mentre di giustizia scocca
    L’ineluttabil folgore sull’uomo,
    Sull’uom misericordia anco trabocca.

    Basti che sì da colpa ei non è domo,
    Che per mano di Dio non debba pure
    Frangere il giogo, e avere in ciel rinomo.

    Basti ch’ei fra ignominie e fra sciagure
    Sta grande e conscio di virtù divine,
    E gli destan rossor vizi e lordure.

    Ei molto ignora, ma le sue rovine
    Attestan quella origin ch’egli avea,
    E suda a restaurarle insino al fine;

    E abborre l’angiol vil che il seducea,
    L’angiolo vil che invano ognor gli grida:
    « Nulla tu sei che argilla stolta e rea! »

    Taci, bugiardo spirto! Iddio m’affida:
    Ei non m’ha tolto, come a te, l’amore:
    Uom si fe’ perch’io ’l veda ed abbial guida.

    Servo a lui son, ma sono a te signore;
    Mal cangi astutamente e viso e manto,
    Per trarmi fra tuoi schiavi al tuo dolore.

    Mal di filosofia t’usurpi il vanto,
    Per insegnarmi il tuo esecrando scherno
    Sull’alte mire del tre volte Santo!

    Io caddi al par di te dal regno eterno,
    Ma non sì basso; e se mi curvo al suolo,
    Non è per invocar fango ed inferno,

    Bensì lui, che raddurmi al ciel può solo!




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